
“Se ni’ mondo esistesse un po’ di bene,
e ognun si considerasse suo fratello,
ci sarebbe meno pensieri e meno pene,
e il mondo ne sarebbe assai più bello!”
Questi versi, che a una prima e superficiale lettura potrebbero sembrare quelli di un poeta vernacolare toscano, in realtà sono stati declamati, dentro un’asettica aula giudiziaria, da un contadino di nome Pietro e di cognome Pacciani: condannato in primo grado per 4 degli 8 duplici omicidi del Mostro di Firenze, poi assolto in Appello, e infine defunto in attesa di subire il processo in Cassazione, il Poeta è membro a pieno titolo di quel folto parterre popolato dai personaggi negativi e maudit dell’Italia contemporanea.
In conseguenza a cotale saga mediatico-giudiziaria (non ancora totalmente spentasi) lo stigma di Mostro è toccato proprio a lui, Pacciani, pur con la complicità operativa di quattro amici, tutti toscanissimi, in compagnia dei quali soleva trascorrere il tempo libero, tra ricche libagioni pomeridiane e battute vespertine di voyeurismo sessuale ambientate in contesti bucolici.
La poesia in oggetto non è stata l’unico momento paccianiano presente in quel procedimento giudiziario, drammatico quanto inopinato contenitore di numerose altre perle di involontaria comicità.
Il piatto è ricco e succulento: se il dittatore Pinochet diventava PinoCHEF, echeggiando una perizia culinaria che mai ci saremmo aspettati dal golpista cileno, una testimone “puzzava di volpe” durante un ballo che il Pacciani stesso si adoperava a mimare davanti ai giudici; ancora, l’imitazione della Ford che non partiva, con tanto di richiamo onomatopeico al motore impallato, sarebbe stata meritevole quantomeno di partecipare a una puntata de “La Corrida” di Corrado.
Si giunge poi ai richiami biblici alla Creazione e alla natura del mondo “che ‘un s’è fatto noi, ma Adamo ed Eva, è da lì che viene tutta la generazione”, e che tratteggiano un Pacciani alquanto interessato a questioni di tipo spiccatamente teologico-spirituale.
Ma l’immagine più evocativa è quella in cui l’autodefinito agnelluccio estrae un santino di Gesù Cristo in favor di telecamera, proclamandosi “innocente come Cristo sulla Croce”.

Ineffabili anche le espressioni che soleva indirizzare alla moglie, rivelate da quelle “intercettazioni canore” (sic) tuttora cliccatissime su Youtube, nel corso delle quali Egli definiva la stessa alla stregua di una “brutta maledetta puttanaccia”, di un “animale velenoso” o di una “sudicia, velenosa e diavola”.
Chapeau, insomma: un soggetto che potremmo definire triviale, rozzo e boccaccesco quanto vogliamo, ma nel quale non possiamo non scorgere una discreta dose tanto di scaltrezza quanto di intelligenza, pur nell’economia complessiva di una personalità avvezza al crimine e alla violenza più di quanto Luca Giurato non lo sia rispetto al killeraggio della lingua di Dante.
Quanto ai complici del Poeta, dal canto loro, non sono certo da meno. A partire da quel Mario Vanni che, durante un dibattimento, arriva a inneggiare al Duce e a promettere un pronto “risorno” (sic) delle camicie nere, invocando poi quello che, forse, riteneva essere un diritto costituzionalmente garantito: la famosa “libertà per andare alla banca e alla Posta”, circostanza che finirà per mettere a dura prova la pazienza del povero P.M. Canessa.
Ma riesce a superarsi quando ribadirà svariate volte, in risposta a domande vertenti su ben altre questioni, l’abitudine che l’intera combriccola aveva di cimentarsi in epocali merende in quel di San Casciano in Val di Pesa (ma solo “dopo desinare!”, come avrà cura di precisare a beneficio di chi nutrisse dubbi sulla salubrità della sua dieta). Quest’ultima circostanza farà ascendere il Vanni e l’intero gruppo direttamente all’Epos nazionalpopolare, contribuendo al conio di un’espressione che persino l’Accademia della Crusca finirà per sdoganare in tempi successivi: i “Compagni di Merende”.

A puntellare l’ensemble criminale, casomai Pacciani e Vanni non vi bastassero, troviamo altri personaggi pittoreschi quali il Lotti, il Pucci e il Faggi, ossia un campionario umano oscillante tra l’oligofrenia spinta e l’analfabetismo propriamente detto, non dimenticando una rapida menzione al mondo delle parafilie sessuali reinterpretate in chiave casereccia.

Riscontriamo forse una maggior serietà tra i numerosi teste? Macché! Se tale Butini si premurerà di specificare che “un so finocchio!”, rimarcando quindi una differenza tra il concetto di omosessualità e il semplice voler bene, su tutti svetta quello che diventerà “il Nemico di Pacciani”, ossia tale Lorenzo Nesi, che i giudici appelleranno sempre, chissà perché, come “il Nesi Lorenzo”, a disdoro di quella convenzione linguistica che vorrebbe il nome pronunciato prima del cognome.
Costui si dimostrerà sin dai primordi un vero e proprio dandy in formato toscano: schermato da un paio di eleganti occhiali fumé da giocatore di poker, e vestito con improbabili abbinamenti cromatici (forse ideati nella sua azienda d’abbigliamento), sarà proprio la sua testimonianza a inchiodare il Poeta durante il processo di primo grado. Ma anche altri aspetti concorreranno a conferirgli un’aura quasi pop, su tutti il suo particolarissimo eloquio, che trasforma i peli pubici in “peli di fiha” e che gli fa aspirare o strisciare una buona metà delle consonanti dell’alfabeto, portandolo infine a incorrere negli strali di un esasperato Pacciani, che in aula lo apostroferà come “buffone” (guadagnandosi così il conseguente allontanamento).

Insomma, quello che sulla carta dovrebbe essere il classico procedimento penale, pur riferito a fatti di enorme gravità, viene sottoposto dapprima a un processo di transustanziazione in autentico spettacolo di cabaret, per poi finire sublimato in una miriade di meme a tema presenti su piattaforme social quali Youtube e succedanei.
Al di là dei recenti sviluppi giudiziari, che lasciano subodorare svariati dubbi sia sulla reale dinamica dei fatti che sul grado di effettivo coinvolgimento di alcuni degli imputati, resta ad oggi un grande rimpianto: che quel tipo di comicità non abbia mai trovato una propria entelechia nel rutilante mondo dell’avanspettacolo, ma che sia rimasta confinata alle bettole e alle campagne fiorentine, venendo ad emersione solo in una sede del tutto impropria allo scopo quale quella processuale.
I quattro o cinque soggetti in questione avrebbero potuto tranquillamente militare in una compagnia comica di natura popolar-boccaccesca, protagonista di programmi d’intrattenimento di respiro anche nazionale, o – perché no – a qualche film diretto da un Nanni Loy o persino da un Monicelli. Ovunque si fossero esibiti, ne sono certo, avrebbero mietuto una messe di applausi a scena aperta; se poi avessero deciso di assumere come proprio nome qualcosa tipo “i Merenderos“, ci saremmo tutti illuminati d’immenso.
Il mio consiglio rivolto agli addetti ai lavori, e al contempo mio grande sogno proibito, è quindi quello di svolgere un casting a tappeto nelle campagne toscane, al fine di scovare personaggi simili ai succitati in quanto a verve comica: genuina e ruspante al tempo stesso. E solo quella, ché gli omicidi e il resto del campionario criminale li eviteremmo tutti molto volentieri!